giovedì 22 marzo 2012

Meanwhile, in Japan - 16 / Quello Che Resta

Il biglietto del ritorno sul tavolo, un sacco di scontrini nel portafoglio e nel cestino, una valanga di gadget comprati in uno dei più bei quartieri di Tokyo, Shinokubo, un pacchetto di tsunaage (1), i biglietti d'ingresso dei templi di Kyoto, la cioccolata al maccha (2), tre scatole di karee (3), la scatola degli okashi (4) che mi ha regalato la mia okaasan (5), le monetine da uno yen che sembrano quelle del Monopoli e non pesano niente, le posate che ho "preso in prestito" in mensa e che non ho mai restituito, il porta-biglietti della Keio-sen (6), un orologio, un biglietto da visita, fotocopie a non finire, l'odore del conbini (7) ancora nelle narici, le vocine moleste del Don Quijote ancore nelle orecchie, la lista delle buone intenzioni una volta rientrata in Italia, una pila di purikura (8) scattate in ogni dove, le bollette care come la morte, pile e pile di cd comprati a prezzi ridicoli, gli accessori di Forever 21, un paio di scarpe che sono un amore, le foto alle feste di Micheal (PRRRRRRRRRRRRRR), i cosini da attaccare al cellulare di Star Wars, i ricordi di quel maledettissimo treno locale verso Shibuya, con le sue 16 fermate lungo la via quando ero già dannatamente in ritardo, dei sorrisi, dei "Taihen ni omatase shimashita...." "Ma de che, son 3 secondi che sono in fila!" (9), dei bambini di 5 anni che tornano a casa da soli, della vecchia che in treno si addormentava con la faccia dentro la borsa, del K-Pop, della gita da suicidio a Kamakura, della pizza al formaggio del Kin-no-Kura, della Tokyo Tower illuminata la sera di Capodanno, dei marciapiedi strettissimi e le strade in centro a 8 corsie, del cielo grigio di Shibuya alle dieci di sera, quasi illuminato a giorno, della boy band (?) in discoteca, della nevicata allucinante che in 2 ore ha coperto tutto il campus di neve, dei matti scatenati che vanno a correre alle 6 di mattina nei giorni di festa, di Kyoto, che è come il centro di Bologna: non si perde neanche un bambino, del kaishain (10) con gli occhi da assassino e i capelli bellissimi, dei pellegrinaggi ai Book-Off, della lavatrice che lava a freddo, dell'odore di incenso di Kyoto, del vagone per sole donne, di Hanazono-sensei-Dj, di quando al Kiyomizudera per la prima volta ho lanciato una moneta e ho unito le mani non per chiedere ma per ringraziare, l'aver scoperto che tutte le metropolitane del mondo hanno lo stesso odore, il pensare che lasciare Tokyo all'inizio della primavera è un delitto, il sapere che anche se piangi in treno non ti guarda nessuno, la consapevolezza che dire "Sì" più spesso paga, l'avere una piccola dose di sicurezza in più, il capire che essere felici non è avere ciò che si vuole, ma esserne riconoscenti.

E il non voler andare via.

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1. Tipo di salatini
2. Tipo di the' verde dal gusto amaro
3. Curry
4. Dolci giapponesi tradizionali
5. Letteralmente, mamma. La signora che mi ha ospitato 3 anni fa a Kyoto, in homestay
6. Linea Keio (compagnia ferroviaria)
7. Convenient Store. Negozi che vendono un po' di tutto
8. Foto che si possono scattare nei game-center, e poi decorare a piacere
9. "Mi perdoni se l'ho fatta aspettare così tanto". Frase comunemente detta dai commessi nei negozi
10. Impiegato / White Collar

Julieta

Mood: Photobucket Melancholy

martedì 20 marzo 2012

Meanwhile, in Japan - 15 / Miscellanea: di Ginza la Bella, di Paure e di Appunti Bevendo un Caffè

Ginza ti ride in faccia, cristallina e quasi sfacciata. Le manca un po' il pudore: sa di essere bella, con i suoi grattacieli di specchi, le boutiques d'alta moda e la stazione di polizia più sciccosa di Tokyo, tutta lucida e dal taglio moderno; un quartiere elegante e silenzioso, pulito, e che, diciamolo, un po' ti fa sentire fuori posto. Ci possono anche provare, le commesse del Matsuya, sorridenti, belle e raggianti di luce propria, a mettermi in mano creme di bellezza da 30 euro la noce; voci impostate, affascinanti, sembrano proprio non accorgersi (e per questo un po' le vorresti ringraziare) che per rendere pienamente tangibile la mia differenza sociale, al mio outfit composto da jeans scoloriti, giacca a vento bella-perché-è-comoda, scarpe da tour-de-force e occhiaie che arrivano al mento mancherebbe solo un pezzo di carta igienica attaccato alla suola.


Sorrido, ringrazio, mi inchino, e torno in strada. In mezzo ai grattacieli, compaiono il teatro kabuki e sporadici vecchi edifici, dall'aria di essere capitati lì per caso. E più in là il 7-Eleven, che in un angolino poco illuminato, incastonato tra un Swarowsky e un Armani, sembra quasi in castigo. Per trovare un posto dove mangiare si deve scarpinare, naso all'insù, seguendo i riflessi colorati sulle pareti a specchio, tra i manichini e le insegne dai nomi francesi (perché, al momento, una colazione da Tiffany non posso proprio permettermela).

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Trova l'intruso

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Il menù

E in mezzo alla folla, tra turisti, kaishain, i pochi studenti e quelli che sembrano tanto dei modelli, appare di tanto in tanto una bella signora in kimono e zori, che scivola via rapida nella corrente, forse diretta a teatro a vedere l'ultimo spettacolo di Matsumoto Kôshirô.


Da Starbucks, nel bagno, un cartello attira la mia attenzione: "Please let us know if you find any suspicious package". E mi si stringe un po' il cuore, perché l'Aum Shinrikyô fa parlare di sé anche a distanza di più di quindici anni (dimostrato anche dal fatto che trovare un cestino dove buttare le cartacce a Tokyo è praticamente impossibile). 


Starbucks, dove i giapponesi passano ore e ore a studiare, a lavorare al computer, o a leggere i libri di cui spesso non posso sapere il titolo perché quasi tutti hanno le sovra-copertine che li rendono anonimi. Starbucks, dove il caffè espresso non sembra più così male come lo era sei mesi fa, e dove non ho ancora potuto assaggiare un frappuccino, perché fa ancora decisamente troppo freddo.
Starbucks, che assieme a McDonald's, accoglie i profughi delle 5 del mattino, intrappolati nel limbo post-discoteca/karaoke - pre-primo treno della giornata.


Prendo la mia giacca, ed esco dal bar. Dopo aver fatto neanche due passi, mi giro sorpresa, sentendomi chiamare: un'altra cliente mi corre incontro, domandandomi se è mio il cellulare lasciato sul tavolo. No, è dell'uomo che al momento è in fila al bancone per ordinare un caffè: in Giappone, per occupare un posto, non si lascia la giacca o un amico, ma è cosa comune appoggiare il telefono o il portafoglio.


Perché è anche cosa comune ritrovarli.


Julieta

Mood: Photobucket Sleepy