martedì 20 marzo 2012

Meanwhile, in Japan - 15 / Miscellanea: di Ginza la Bella, di Paure e di Appunti Bevendo un Caffè

Ginza ti ride in faccia, cristallina e quasi sfacciata. Le manca un po' il pudore: sa di essere bella, con i suoi grattacieli di specchi, le boutiques d'alta moda e la stazione di polizia più sciccosa di Tokyo, tutta lucida e dal taglio moderno; un quartiere elegante e silenzioso, pulito, e che, diciamolo, un po' ti fa sentire fuori posto. Ci possono anche provare, le commesse del Matsuya, sorridenti, belle e raggianti di luce propria, a mettermi in mano creme di bellezza da 30 euro la noce; voci impostate, affascinanti, sembrano proprio non accorgersi (e per questo un po' le vorresti ringraziare) che per rendere pienamente tangibile la mia differenza sociale, al mio outfit composto da jeans scoloriti, giacca a vento bella-perché-è-comoda, scarpe da tour-de-force e occhiaie che arrivano al mento mancherebbe solo un pezzo di carta igienica attaccato alla suola.


Sorrido, ringrazio, mi inchino, e torno in strada. In mezzo ai grattacieli, compaiono il teatro kabuki e sporadici vecchi edifici, dall'aria di essere capitati lì per caso. E più in là il 7-Eleven, che in un angolino poco illuminato, incastonato tra un Swarowsky e un Armani, sembra quasi in castigo. Per trovare un posto dove mangiare si deve scarpinare, naso all'insù, seguendo i riflessi colorati sulle pareti a specchio, tra i manichini e le insegne dai nomi francesi (perché, al momento, una colazione da Tiffany non posso proprio permettermela).

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Trova l'intruso

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Il menù

E in mezzo alla folla, tra turisti, kaishain, i pochi studenti e quelli che sembrano tanto dei modelli, appare di tanto in tanto una bella signora in kimono e zori, che scivola via rapida nella corrente, forse diretta a teatro a vedere l'ultimo spettacolo di Matsumoto Kôshirô.


Da Starbucks, nel bagno, un cartello attira la mia attenzione: "Please let us know if you find any suspicious package". E mi si stringe un po' il cuore, perché l'Aum Shinrikyô fa parlare di sé anche a distanza di più di quindici anni (dimostrato anche dal fatto che trovare un cestino dove buttare le cartacce a Tokyo è praticamente impossibile). 


Starbucks, dove i giapponesi passano ore e ore a studiare, a lavorare al computer, o a leggere i libri di cui spesso non posso sapere il titolo perché quasi tutti hanno le sovra-copertine che li rendono anonimi. Starbucks, dove il caffè espresso non sembra più così male come lo era sei mesi fa, e dove non ho ancora potuto assaggiare un frappuccino, perché fa ancora decisamente troppo freddo.
Starbucks, che assieme a McDonald's, accoglie i profughi delle 5 del mattino, intrappolati nel limbo post-discoteca/karaoke - pre-primo treno della giornata.


Prendo la mia giacca, ed esco dal bar. Dopo aver fatto neanche due passi, mi giro sorpresa, sentendomi chiamare: un'altra cliente mi corre incontro, domandandomi se è mio il cellulare lasciato sul tavolo. No, è dell'uomo che al momento è in fila al bancone per ordinare un caffè: in Giappone, per occupare un posto, non si lascia la giacca o un amico, ma è cosa comune appoggiare il telefono o il portafoglio.


Perché è anche cosa comune ritrovarli.


Julieta

Mood: Photobucket Sleepy

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